Ritratti
Ricky Albertosi, un campione che non sarà mai un ex
E’ stato fra i più grandi portieri di sempre del calcio italiano. Indimenticabile lo scudetto col Cagliari e quello della stella col Milan. E quella volta che in Inghilterra…
C’è sempre emozione nell’avvicinare un campione che ha fatto la storia. E nel mondo del calcio, di rado capita di incontrare un atleta che, ovunque sia stato, venga considerato forse il migliore nella storia di quel club. Parliamo di Ricky Albertosi, ex estremo difensore di Cagliari, Fiorentina e Milan. Ma conosciamo meglio questo splendido 80enne, gentile e disponibile, che con la solita franchezza ci ha raccontato una carriera intensa e ricca di avvenimenti, facendoci rivivere gli anni in cui il calcio era romantico, come piace a noi.
Com’è nata la sua vocazione per il ruolo di portiere?
Mio padre giocava nei dilettanti della Pontremolese. Non c’erano spogliatoi al campo, gli unici erano nella palestra della scuola che distava un paio di km dal campo. Per cui alla fine del primo tempo i calciatori non rientravano negli spogliatoi, ma restavano in campo a prendere il tè. Nei paesini potevi fare come volevi, erano campionati di Seconda Categoria. Mio padre allora mi metteva in porta, e mi tirava il pallone piano. Avevo 7 anni. Così mi sono appassionato e ho sempre giocato in porta. Non ho mai cambiato ruolo, anche se mi sarebbe piaciuto fare l’attaccante. Lo facevo nelle partitelle di allenamento da professionista. Io giocavo in attacco ed il terzo portiere andava tra i pali.
Il Segreto di Lev Jašin
Qual è stata la prima partita che ha visto?
Inter-Torino, quando l’Inter giocava ancora all’Arena. In quell’occasione ho visto il Grande Torino, e Bacigalupo era il portiere granata. Avevo 9 anni, lo osservai e imparai alcune cose che poi mi tornarono utili. Ricordo ancora che piansi molto alla notizia della tragedia di Superga.
Chi è stato per lei il più grande interprete del ruolo di portiere?
Beh, Lev Jašin ai Mondiali del ’66 contro di noi fece delle parate straordinarie. Era ancora un estremo difensore eccezionale, nonostante avesse già 37 anni. Solo che poi andammo al controllo antidoping, e sotto la panciera mostrò una pancia floscia da impiegato. Non aveva un muscolo bello tonico come avrebbe dovuto essere. Comunque durante la partita fu strepitoso. E’ stato uno dei più grandi di sempre. E’ sempre difficile confrontare portieri di epoche diverse. Anche perché il ruolo si evolve, adesso chiedono sempre di più di giocare coi piedi, di avviare l’azione. Io però questo aspetto lo avevo anticipato, perché a me piaceva star fuori dalla porta, giocare al limite dell’area di rigore. Interpretavo il ruolo in maniera diversa. Solo che una volta potevi prendere la palla con le mani quando un compagno te la passava. Oggi non si può, e questa è una difficoltà in più.
Ricordo un rigore parato in Cagliari-Juventus, calciato da Haller. Solo che in quel caso l'arbitro Lo Bello lo fece ripetere perché disse che mi ero mosso prima della battuta. Quella parata valeva lo scudetto. Lì mi sono crollati i nervi, mi sono accostato al palo e mi sono messo a piangere dalla rabbia.
Qual è la sua partita del cuore, quella che ricorda con maggiore emozione?
Il mio esordio in serie A. In campo neutro a Livorno, contro la Roma. Ero il portiere della Fiorentina, il 18 Gennaio 1959 giocai contro una squadra di fenomeni. Nei giallorossi c’erano Losi, Ghiggia, Selmosson, Dino da Costa. Pareggiammo 0 a 0 ed io feci delle belle parate. In pratica entrai nel professionismo vero, quel giorno. Lo ero già in B con lo Spezia, ma la serie A era una cosa a parte.
C’è una parata che le torna in mente, e che lei ricorda in particolare?
Ricordo tre parate consecutive fatte a Vicenza. Io giocavo nel Milan, e nella stessa azione riuscii a fare tre interventi ravvicinati, nel giro di una decina di secondi. Non sono mai riuscito a ritrovare quel filmato. Ricordo che in quel match era in campo anche Paolo Rossi. E poi un’altra, in un derby. Parai un rigore ad Altobelli. Eravamo sullo 0-0. Parare un rigore in un derby non è da tutti, e io non ero uno specialista. Ricordo anche un rigore parato in Cagliari-Juventus, calciato da Haller. Solo che in quel caso l’arbitro Lo Bello lo fece ripetere perché disse che mi ero mosso prima della battuta. Quella parata valeva lo scudetto.
Lì mi sono crollati i nervi, mi sono accostato al palo e mi sono messo a piangere dalla rabbia.
Poi ha tirato Anastasi e ha fatto gol. Comunque la partita finì 2 a 2, e a fine campionato vincemmo il titolo. Lo scudetto col Cagliari fu strameritato e quel rigore parato lo ricordo comunque come l’intervento migliore della stagione.
Come andò il suo trasferimento al Cagliari? E’ vero che doveva andare all’Inter?
Sì, assolutamente. La Fiorentina aveva deciso di mettermi sul mercato, e io avevo ricevuto una chiamata da Italo Allodi, che era il direttore sportivo dell’Inter. Mi conosceva bene, e mi disse che l’anno dopo avrei vestito i colori nerazzurri. Ero felice di passare dalla Fiorentina all’Inter, ma non andò così. Quando mi chiamò il presidente per dirmi che mi aveva ceduto, mi disse che sarei andato al Cagliari. Ci rimasi malissimo, perché l’Inter lottava sempre per il titolo, mentre il Cagliari si barcamenava a centro classifica. Gli dissi che non ci sarei andato. Ma dopo qualche giorno, a mente fredda, capii che non potevo rifiutarmi, altrimenti la società avrebbe potuto mettermi fuori rosa. A Cagliari mi sono trovato benissimo. Ho trovato dei ragazzi eccezionali, che lottavano sempre per 90′ in tutte le partite. Il primo anno siamo arrivati secondi, ma credendoci di più avremmo potuto vincere il campionato. E invece lo vinse la Fiorentina. Era il ’69. L’anno dopo invece partimmo subito forte. Boninsegna era andato via, ma arrivarono Gori e Domenghini, e vincemmo lo scudetto. E probabilmente ci saremmo potuti ripetere l’anno dopo, senza l’infortunio di Gigi Riva. Infatti nel ’71, dopo le prime giornate avevamo 5 punti di vantaggio sulla seconda. Avevamo anche battuto l’Inter a Milano. Ma la settimana dopo ci fu il grave infortunio di Gigi con la Nazionale a Vienna. Lui per noi era il trascinatore, colui che finalizzava tutte le azioni. Abbiamo continuato a lottare ancora un po’, ma chiaramente senza gol non siamo più stati competitivi.
Lei è sempre rimasto a lungo nei club in cui ha giocato, non ha vestito moltissime maglie. Si è sempre trovato bene con compagni e allenatori?
Sono sempre stato uno che diceva le cose che pensava. Non ho mai litigato coi compagni, ero franco, andavo d’accordo con tutti. Probabilmente questa cosa mi ha sempre portato ad essere benvoluto dai miei compagni. Loro si fidavano di me al 100%. Io ero un portiere che guidava molto la difesa, e loro mi ascoltavano sempre. Ho avuto qualche allenatore col quale non sono andato d’accordo. Ad esempio a Firenze con Bassi non ci fu mai feeling, e questo fu il motivo per il quale venni messo sul mercato. Anche nel Milan non sono andato d’accordo con Giacomini. Ma con tutti gli altri il rapporto fu splendido. Guarda caso con Valcareggi, Scopigno e Liedholm ho dato il meglio di me, riuscendo ad esprimermi al mio livello più alto perché sentivo la loro massima fiducia.
Lei ha disputato oltre 600 partite da professionista. Qual è il calciatore più forte contro cui ha giocato, e quello di maggior talento che ha avuto come compagno di squadra?
Sicuramente l’avversario più forte è stato Pelé, non ho alcun dubbio. Non ho avuto modo di giocare contro Maradona, ma fra quelli che ho affrontato, sicuramente il brasiliano è quello che più mi ha impressionato. Nelle mie squadre invece il più forte è stato Riva. Era una vera e propria furia. Non era forse straordinario col destro, ma comunque segnava anche con quello. Però era una vera forza della natura. Non smetteva mai di incitare, di chiamare la palla. La voleva sempre. E ancora oggi nessuno ha segnato il suo numero di gol in Nazionale, non è certo un caso.
Ogni angolo era uno “shit”
Lei ha raccontato tanti aneddoti, tante curiosità che sono poi le cose che gli sportivi amano di più, e che rendono i campioni del passato più vicini ai propri tifosi. Ma ce n’è una meno nota che le piace ricordare?
Mi ricordo una partita giocata in Inghilterra, ero nel Milan. Non ricordo la squadra, ma un giocatore sui calci d’angolo mi veniva vicino sorridendo, e dicendomi “shit”. Io non parlavo l’inglese, così gli sorridevo senza capire. Ad ogni angolo si ripeteva la stessa cosa. Quando sono tornato a casa, siccome mia moglie era interprete di inglese, mi spiegò che in pratica lui mi diceva che ero una merda. A quel punto, nella gara di ritorno a Milano, lo anticipavo io, prima che me lo dicesse. E’ venuto solo un paio di volte, poi non si è più avvicinato. E non rideva più. (sorride, ndr)
Secondo lei, se Zoff non fosse andato alla Juve, oggi si parlerebbe di più di Albertosi, che a mio modesto avviso non gli è stato affatto inferiore?
Zoff ha avuto la fortuna di andare alla Juventus. Dovevo andarci io, ma Riva rifiutò il trasferimento a Torino, e così la Juve si tirò indietro perché voleva sia lui che me. Finii al Milan, e la Juve prese Zoff. Ci fossi andato io, avrei vinto molti più scudetti, e sarei oggi considerato unanimemente il più grande. Avrei continuato a giocare in Nazionale, avrei fatto il quinto mondiale, cosa che allora non era ancora riuscita a nessuno. Sono comunque, secondo me, fra i migliori portieri italiani, però ho vinto poco per quello che ho dato. Ho vinto solo due Scudetti, tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe, ma alla Juve avrei vinto molto di più.
Ancora oggi, giocare nella Juve è un vantaggio ai fini della convocazione in Nazionale?
Quando si chiamano i blocchi, è così. Valcareggi chiamò il blocco difensivo del Cagliari ai Mondiali del ’70. C’eravamo io, Cera, Niccolai. Quest’ultimo si fece male subito e giocò Rosato. Ma in squadra c’erano anche Riva e Domenghini, nonché Boninsegna che era stato con noi l’anno prima. Per cui è sempre stato così in Nazionale, si prediligono i blocchi, e quindi poi anche le convocazioni sono legate al club in cui giochi. Anche perché c’è poco tempo per allenarsi. Una volta non era come adesso. L’allenatore chiama sempre i soliti. Crea un gruppo di 15 o 18 giocatori e giocano sempre loro. E poi una volta la Nazionale giocava al massimo tre o quattro partite l’anno, non come ora.
A proposito di Nazionale, come fu il suo rapporto con la maglia azzurra?
Ricordo che per l‘Europeo che vincemmo nel ’68, avevo fatto tutte le gare di qualificazione. Ho saltato solo l’ultima partita a Napoli. In quell’occasione giocò Zoff, che prima non era stato nemmeno convocato. All’epoca si chiamavano 2 portieri per le partite, ed eravamo io e Lido Vieri. Siccome si giocava a Napoli, Valcareggi chiamò Zoff al posto mio, visto che lui giocava nel Napoli ed io ero infortunato. Si fece male anche Vieri, così giocò lui. L’Italia vinse, Dino giocò bene, e ci qualificammo agli Europei. Io venni comunque convocato anche se avevo un dito rotto. Il mister non mi fece giocare, ma mi tranquillizzò sul mio utilizzo ai Mondiali, per i quali eravamo già qualificati. E fu così, anche perché Valcareggi era un uomo di parola. Poi lo conoscevo bene perché era stato anche il mio allenatore a Firenze.
Un’eterna rivalità
C’è sempre stato questo forte dualismo con Zoff, fra Europei, Mondiali, club. Ma è stato anche molto bello ed esaltante, no?
Sì, certo. Io non avevo nulla contro di lui. Il nostro rapporto si è un po’ incrinato nel ’78, perché Bearzot mi chiamò per andare al Mondiale come terzo portiere. Per me sarebbe stato bello fare il quinto Mondiale, ma poi il mister mi richiamò dopo una decina di giorni. Mi disse che Zoff non si sarebbe sentito tranquillo se fossi stato convocato, e così mi lasciò a casa. Quando poi Zoff prese due gol dall’Olanda da molto lontano, uno addirittura da quaranta metri, io lo criticai in un’intervista. Lui se la prese molto. Poi alla ripresa del campionato, in Milan-Juventus io sono andato da lui per salutarlo, ma ha voltato la testa dall’altra parte, e allora io l’ho mandato al diavolo. Poi ci siamo riappacificati. Ci siamo trovati dopo un po’ di tempo in un albergo. Lui scendeva le scale, io le salivo, ci siamo abbracciati e la cosa è finita lì. Siamo tornati ad essere non amici ma colleghi che si stimano e si rispettano.
Possiamo dire che oggi come allora, restiate un po’ come il Diavolo e l’Acqua Santa, lei e Zoff?
Sicuramente. Anche lui è stato un grande portiere, ma la differenza era che io potevo stare una settimana senza allenarmi e giocare lo stesso, perché il mio fisico me lo permetteva. Lui invece aveva bisogno di allenarsi, perché aveva delle gambe più grosse delle mie. Poi lui era molto più metodico, mentre io ero imprevedibile. A me a volte piaceva rendere difficili anche le parate facili, tuffandomi all’ultimo. Il calcio è un grande spettacolo, è bello che un portiere compia un intervento non solo efficace ma anche scenografico. Comunque, non sta a me dire chi sia stato il più grande, ma di certo io ero più spettacolare di Zoff.
Grazie Ricky, uno di quei campioni che non saranno mai ex.
Antonio Petrucci
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